di Marco Galaverna

Nella maggior parte dei settori professionali, le condizioni di lavoro sono evolute nel tempo, in funzione degli strumenti e dei supporti tecnici disponibili. Il mondo della ferrovia non fa eccezione; anzi, l’evoluzione tecnologica ha inciso profondamente sulle modalità di lavoro in ogni comparto: trazione, movimento, impianti e altro ancora. In questa pagina ci occuperemo degli operatori della circolazione e la nostra guida sarà il libro [1]; le pagine più avanti citate si riferiranno appunto a quel volume.

La linea Succursale dei Giovi, comune alle importanti direttrici Milano – Genova e Torino – Genova, fu attrezzata col blocco elettrico automatico negli anni Sessanta e da allora fu necessario presenziare soltanto i bivi e le stazioni, necessità che decadde a partire dagli anni Ottanta con l’attivazione del telecomando dal DCO di Rivarolo. In precedenza, il regime di circolazione era il blocco elettrico manuale e, per far fronte all’intensità del traffico, fu necessario istituire posti di blocco, ovviamente presenziati, anche in piena linea, cioè fuori delle stazioni, in modo da poter inviare più treni contemporaneamente, nel pieno rispetto della sicurezza, fra una stazione e l’altra. Del blocco manuale la nostra rubrica si occupò già nelle pagine [2] e [3].

Isolati o in aperta campagna, senza strade di accesso e senza alcuna minima comodità, questi posti di blocco imponevano, ai ferrovieri che vi prestavano servizio, condizioni di vita  decisamente disagiate, che oggi sarebbero, almeno da noi, inaccettabili.

Partendo dalla stazione di Ronco Scrivia in direzione di Genova, il primo posto di blocco intermedio (PBI) era il n. 12, al centro della galleria Ronco, lunga 8291 m; i successivi PBI erano situati uno fra la stazione di Mignanego e quella di S. Quirico e uno fra S. Quirico e il Bivio Fegino (n. 11 e 10); naturalmente anche le stazioni e il Bivio erano posti di blocco.

Il PBI n. 12, al centro della galleria, era raggiunto dal guardablocco a piedi, attraverso un pozzo inclinato con una scalinata di un numero incerto di gradini: 670 secondo il ricordo di A. Masuelli (pag. 237 libro [1]), il cui padre vi lavorò vent’anni, 480 gradini secondo la versione di M. Ferrario (pag. 249). Questo posto di blocco era freddo, privo di acqua e, secondo una fonte, illuminato ad acetilene. Il disagio per i lavoratori era compensato con un aumento della retribuzione ma nessuno voleva andarci, quantunque l’Amministrazione, consapevole delle penose condizioni di lavoro, avesse ridotto i turni di presenza: quelli pomeridiani erano dalle ore 12 alle 16 e dalle ore 16 alle 20. La solitudine del guardablocco doveva essere pesante, interrotta soltanto, si legge, dai topolini (che cosa ci trovassero laggiù, viene da chiedersi) e dai guardalinea, che percorrevano a piedi gli 8 km  tra Ronco e Mignanego per controllare l’armamento.

Attualmente, l’imbocco del pozzo inclinato fa parte del sistema per l’evacuazione d’emergenza della galleria. Esso non è normalmente accessibile ma si intravede dalla S.P. 35. La mia foto inquadra il sito dal punto più vicino cui si può giungere dalla strada; la ciminiera è estranea all’impianto ferroviario.

Seppur meno tristi, non più comode erano le situazioni degli altri posti di servizio. Lungo la provinciale dei Giovi, nel periodo fra le due guerre e nei primi anni successivi, i trasporti pubblici erano carenti e poiché il possesso di un mezzo privato era per lo più un sogno, i posti di servizio venivano raggiunti con tre o quattro ore di cammino a piedi, secondo la testimonianza di G. Traverso (pagg. 231 – 236). Il PBI n. 10 veniva raggiunto a piedi dal guardablocco, che abitava al casello n. 12 (zona S. Ambrogio di Vetrerie) e, a proprio rischio, per accorciare il percorso, qualche ferroviere percorreva i binari. Anche la stazione di S. Quirico era raggiunta a piedi dagli agenti che vi prestavano servizio, ad esempio da Pontedecimo (circa 3 km di distanza), perché la zona non era servita dal trasporto pubblico stradale e i treni viaggiatori che sostavano a S. Quirico erano pochissimi, due al mattino e uno alla sera, secondo la testimonianza di O. Simonotto (pag. 270), non coincidenti con gli orari di inizio dei turni.

Oltre alla certezza dell’impiego, un forte senso del dovere deve aver ispirato questi dipendenti delle Ferrovie, peraltro allora meno retribuiti rispetto ai lavoratori dell’industria privata, dipendenti che hanno garantito al prezzo di sacrifici personali la regolarità e la sicurezza nella circolazione dei treni, fino all’avvento delle tecnologie, telecomandi e automazione, che hanno alleggerito gli operatori umani dai compiti più gravosi.

 

[1] “Quelle grandi ruote rosse”, a cura di F. Bertuccio e M. G. Mello, ed. Sagep, 2013

[2] http://www.superbadlf.it/wordpress/il-treno-nella-storia-paletta-di-comando-e-berretto-rosso/ , novembre 2021

[3] https://www.superbadlf.it/wordpress/il-treno-nella-storia-gli-ultimi-rintocchi/ , dicembre 2022

 
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Marco Galaverna

Nato a Genova nel 1963, si è laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università degli Studi di Genova e presso il medesimo ateneo ha conseguito il Dottorato in Ingegneria Elettrotecnica. Dal 1989 fornisce supporto presso la stessa Università alle attività didattiche per diversi corsi attinenti all’Ingegneria dei Trasporti. Socio dal 1990 del Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani (C.I.F.I.) è stato Delegato della Sezione di Genova di tale Collegio dal 1998 al 2006. È autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche nel campo dell’Ingegneria dei Trasporti e del libro “Tecnologie dei trasporti e territorio” insieme al Prof. Giuseppe Sciutto. Dal 1992 è docente di Elettronica e materie affini presso l’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore Einaudi-Casaregis-Galilei di Genova.