di Marco Galaverna

 

Un argomento trattato nei testi di ingegneria ferroviaria del primo Novecento e non più in quelli odierni è la ventilazione delle gallerie. Ci riferiamo allo smaltimento dei gas di scarico delle locomotive a vapore, all’epoca necessario nell’esercizio normale, e non ai sistemi atti a ostacolare la propagazione dei fumi derivanti da incendi, argomento sempre attuale ed anzi guardato con più attenzione oggi che in passato.

I viaggiatori dei treni a vapore potevano difendersi dal fumo chiudendo i finestrini delle carrozze, ma il personale di servizio non aveva questa possibilità. In più, mentre sono noti i tragici effetti causati in vari casi dall’asfissia dei macchinisti, fra cui l’incidente ai Giovi del 1898 ricordato di recente in queste pagine della Superba, meno noti sono i pericoli per i ferrovieri che svolgevano il loro lavoro nelle gallerie, ma non sui treni. Inizialmente erano gli operai della manutenzione, che in assenza dei moderni mezzi d’opera percorrevano le gallerie a piedi, per l’ispezione della linea o le riparazioni. Nel più antico traforo alpino, il Frejus (anno 1871, 13.6 km), realizzato con il punto più alto nel mezzo e le rampe dai due imbocchi, i fumi ristagnavano perennemente nella sezione centrale e causavano malesseri nel personale della manutenzione in misura costante. La costruzione di camini per lo smaltimento dei fumi sarebbe stata improponibile, per l’eccessiva altezza della copertura rocciosa sopra il tracciato ferroviario.

Negli anni successivi, allorché la crescita dei traffici indusse le Amministrazioni Ferroviarie ad aumentare la frequenza dei treni, si pensò di istituire posti di segnalamento al centro delle lunghe gallerie a doppio binario, in modo che quando un primo treno avesse superato la metà del traforo, un treno successivo inviato nella stessa direzione vi sarebbe potuto entrare in condizioni di sicurezza. Una delle prime gallerie, in Italia, attrezzate con questo sistema fu, nel 1900, quella di Ronco sulla linea Succursale dei Giovi. Questa tecnica di esercizio poneva due nuovi problemi: primo, rendere respirabile l’aria in una cabina al centro della galleria per i ferrovieri che, con un turno di almeno otto ore lavorative, vi prestavano servizio per controllare il transito dei convogli; secondo, eliminare i fumi che avrebbero resa incerta la visibilità degli stessi segnali luminosi. Si ricorda che una concentrazione di CO (ossido di carbonio) nell’aria tra lo 0,2 e lo 0,4% porta alla morte in circa 15 minuti, dopo aver provocato la perdita di conoscenza.

I camini, o “pozzi d’aerazione”, costruiti in buon numero sotto gli Appennini (ad esempio, quattro nella galleria Giovi, m 3258, e sette nella galleria Ronco, m 8291), e per lo più irrealizzabili sotto le Alpi, avevano presto rivelato un’efficacia modesta, resa incerta dalle condizioni locali di temperatura, vento e pressione atmosferica.

La soluzione arrivò dai motoventilatori ideati dall’ing. Saccardo, dal diametro di cinque metri, mosse da macchine a vapore fisse, installate all’esterno presso gli imbocchi delle gallerie, in grado di soffiare aria fresca nei tunnel alla velocità di 3¸4 m/s nella direzione contraria alla marcia dei treni in salita.

Un’interessante descrizione del sistema, con le formule di progetto, si può leggere in uno dei più classici trattati di ingegneria ferroviaria del Novecento, quello dell’ing. Corini [1]. In particolare, per la galleria Ronco, vi si legge che grazie alla ridotta copertura della montagna, fu possibile sfruttare i due pozzi d’aerazione a valle e a monte del centro della galleria. Presso l’imbocco del primo pozzo, all’aperto, si impiantò un ventilatore atto a spingere aria fresca dentro la galleria mentre, presso l’imbocco del secondo, un altro ventilatore estraeva l’aria dal tunnel. In questo modo, con un percorso ad U, era assicurato un ricambio d’aria continuo proprio nella sezione col posto di segnalamento. Ciò si aggiungeva alla ventilazione generale del traforo, ottenuta sempre con un impianto Saccardo ad aspirazione posto a Mignanego.

Dopo l’elettrificazione delle ferrovie di valico, gli impianti di ventilazione furono in vario tempo demoliti e sarebbe interessante conoscere se, in Italia o all’Estero, qualche componente ne sia stato preservato a scopo museale, testimonianza storica di una pagina di tecnica ferroviaria fondamentale per la sicurezza delle persone e dell’esercizio all’epoca del vapore.

 

[1] F. Corini, “Costruzione ed esercizio delle ferrovie”, UTET, 1930.
******************************************
Marco Galaverna

Nato a Genova nel 1963, si è laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università degli Studi di Genova e presso il medesimo ateneo ha conseguito il Dottorato in Ingegneria Elettrotecnica. Dal 1989 fornisce supporto presso la stessa Università alle attività didattiche per diversi corsi attinenti all’Ingegneria dei Trasporti. Socio dal 1990 del Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani (C.I.F.I.) è stato Delegato della Sezione di Genova di tale Collegio dal 1998 al 2006. È autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche nel campo dell’Ingegneria dei Trasporti e del libro “Tecnologie dei trasporti e territorio” insieme al Prof. Giuseppe Sciutto. Dal 1992 è docente di Elettronica e materie affini presso l’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore Einaudi-Casaregis-Galilei di Genova.